
Davide Rossi
"Avevo diciannove anni" ci insegna molto sul 1945, ma anche moltissimo sul tempo presente, proprio per questo forse qualcuno non apprezza che sia invece giustamente promosso e proiettato.
Questo 2025 segna l'80° della Liberazione di Berlino da parte dell'Armata Rossa nel 1945 e già a maggio, come oramai dal 2022, tanto le autorità statali, quanto quelle della città di Berlino, hanno impedito e impediscono il doveroso tributo ai liberatori sovietici, vietano di cantare in russo le canzoni della Grande Guerra Patriottica, negano il diritto di piangere i giovani ragazzi caduti per sconfiggere il nazifascismo deponendo un fiore in loro onore presso i memoriali cittadini, a partire da quello del parco di Treptow, arrestano chi sventola una bandiera russa o sovietica.
Abbastanza incredibile, ma esplicito segno dei tempi, anche la proiezione di un capolavoro cinematografico come "Avevo diciannove anni", in tedesco "Ich war neunzehn", sebbene inizialmente il titolo immaginato fosse "Heimkehr '45", ovvero "Ritorno a casa '45", diventa occasione di polemica per coloro che ogni giorno fomentano a Berlino la russofobia e ambiscono a promuovere il deflagrare di una scellerata e scriteriata guerra della Germania e dell'Unione Europea contro la Russia. Questo dimostra altresì come molti settori della società tedesca mirino a presentare la Liberazione del 1945 non come un avvenimento positivo, quale è effettivamente stato, rappresentando la definitiva sconfitta dell'hitlerismo, ma indugino malevolmente accampando critiche contro la costruzione del socialismo tedesco, allora robustamente sostenuto dai russi, volto a denazificare la società tedesca, espropriare i latifondi per dare la terra ai contadini, mettere sotto controllo operaio le fabbriche.
Una polemica ancor più incredibile se si pensa che il film è stato realizzato nel 1968 dalla DEFA, ovvero oltre mezzo secolo fa, con una sceneggiatura che oltre al regista Konrad Wolf, autore di svariate e memorabili pellicole capaci di raccontare la società socialista tedesca, nonché dal 1965 fino alla sua scomparsa nel 1982 presidente della Akademie der Künste der DDR, ovvero l'Accademia delle Arti della Germania democratica, ha avuto il contributo di Wolfgang Kohlhaase e di Evelyn Carow al montaggio. Girato con il supporto dell'esercito tedesco - orientale e di quello sovietico nella prima parte del 1967, esce nelle sale della DDR il 2 febbraio 1968 con una proiezione al Kino International di Berlino, per poi essere visto da oltre tre milioni e mezzo di tedesco - orientali nei mesi successivi.
"Avevo diciannove anni" mostra, cercando di far emergere l'umanità di quei ragazzi che hanno lasciato le loro case e sono diventati soldati sovietici per amore della loro patria e per la necessità di liberare l'intera Europa dal mostro nazifascista, un piccolo squarcio della vita in guerra di alcuni giovani rappresentativi dei milioni di mobilitati, capaci di un supremo sacrificio di ben ventisette milioni di donne e uomini sovietici, caduti nei campi di sterminio e poi come partigiani, civili e ovviamente soldati.
In un contesto così drammatico, violento, pieno di dolore e di morte, come sempre è la guerra, il grande regista Konrad Wolf porta gli spettatori dentro una pellicola in bianco e nero assolutamente autobiografica, ma davvero toccante, piena appunto di quella umanità più forte e più grande della brutalità che si dispiega in ogni conflitto.
"Avevo diciannove anni" - "Ich war neunzehn" dice il titolo ed è stato esattamente così, Konrad Wolf, figlio del poeta comunista di Colonia Friedrich Wolf esule a Mosca, arriva a sette anni nella capitale sovietica e nel 1944 diciottenne decide di arruolarsi nell'Armata Rossa per contribuire alla liberazione della Germania, diventando anche, in ragione della sua perfetta conoscenza tanto del tedesco, quanto del russo, un valido e indispensabile traduttore per l'Armata Rossa, chiamata a dialogare con le popolazioni che incontra nella sua avanzata, certo liberate, ma al contempo smarrite.
Wolf affida al giovane attore esordiente Jaecki Schwarz la parte di sé stesso, con il nome di Gregor Hecker, il giovanissimo tenente ha tra i vari compiti di propaganda anche quello di interloquire con i militari della Wehrmacht per convincerli, dai graduati ai soldati semplici, ad arrendersi senza combattere, data l'irreparabilità della sconfitta nazista. In quei giorni tra aprile e maggio 1945 viaggia su un furgone saldamente guidato da Cinghis, russo - mongolo che non a caso porta il nome di Cinghis Khan padre della Mongolia moderna, interpretato da Kalmurza Rachmanov, un doveroso omaggio ai russi asiatici e ai cittadini delle nazioni oggi dell'Asia Centrale tanto numerosi nell'Armata Rossa, ed è accompagnato da un amico soldato, Saša Ziganjuk, ruolo affidato Aleksej Ejboženko. Nel film è anche presente la vicenda autenticamente vera del capitano sovietico Vladimir Gall, capace a Berlin - Spandau di salvare centinaia di civili tedeschi.
La pellicola prende avvio in un momento immediatamente successivo alla vittoriosa offensiva sovietica sul fiume Oder, con l'arrivo il 16 aprile 1945 di un piccolo distaccamento sovietico nel borgo di Bernau nel Brandeburgo, qui un generale dell'Armata Rossa nomina il diciannovenne Gregor Hecker comandante della piccola città e il ragazzo si industria di provare ad organizzare un embrione di governo civile, conoscendo anche una ragazza tedesca, splendidamente interpretata da Jenny Gröllmann, in fuga dalla Pomerania, i dialoghi tra i due giovani sono di toccante emozione, così come il ricordo del terribile dolore e della furibonda violenza portata dal nazismo in Russia, riepilogata alla tedesca da una soldatessa dell'Armata Rossa interpretata da Galina Polskič.
Il cammino verso Berlino prosegue con la liberazione dei sopravvissuti presenti nel campo di concentramento di Sachsenhausen, ricordando le migliaia di sovietici qui internati e sterminati e inserendo immagini di repertorio dal documentario di Richard Brandt realizzato nel 1946 proprio nel campo e dedicato alla tragica storia di quel luogo di morte.
Il 30 aprile 1945, il capitano Vadim Geiman, ovvero Vladimir Gall, interpretato da Vasilij Livanov, riceve l'incarico di negoziare la resa della Cittadella di Spandau, portando con sé Gregor Hecker come interprete, all'iniziale diniego, dopo un colloquio diretto del capitano con i graduati nazisti, si raggiunge un accordo, che salva non solo la loro vita, ma soprattutto quella di molti civili tedeschi rifugiatisi nella struttura.
Altro momento di profondissima umanità, di fraternizzazione tra soldati dell'Armata Rossa e sopravvissuti comunisti ai campi di sterminio, è la festa in una villa abbandonata per il primo maggio, giornata internazionale dei lavoratori. Può risultare difficile capirlo per chi non abbia visto il film, ma i soldati che passano il pomeriggio a preparare insieme i pelmeni, i ravioli russi, in un clima di ingenua e gioiosa rilassatezza, un frammento quasi impercettibile di felicità dentro la tragedia della guerra, pur avviata per i sovietici alla sua vittoriosa conclusione, rappresentano fotogrammi di autentica poesia.
La marcia verso Berlino procede, alcuni comunisti tedeschi, tra quelli liberati dalla prigionia concentrazionaria, vengono lasciati dai sovietici nei loro villaggi e invitati a dare vita a embrionali poteri amministrativi, tuttavia alcuni gruppi di nazisti e di SS in fuga dalla capitale tedesca, sempre più sotto controllo dell'Armata Rossa, aprono il fuoco contro l'esercito sovietico che avanza e quei soldati che il giorno prima abbiamo visto celebrare il primo maggio ballando, dopo l'allegra tavolata, sul far della sera tra loro e con le poche soldatesse che li accompagnano, sono obbligati a tornare a imbracciare i fucili per difendere le loro vite e la libertà, tuttavia alcuni di loro in quel 2 maggio 1945 rimarranno tragicamente sul campo di battaglia.
Mentre i compagni d'arma si inoltrano verso Berlino, il 3 maggio 1945 Hecker, Ziganjuk e Cinghis si attestano presso un casolare contadino, raccogliendo soldati tedeschi sbandati che si arrendono, accentando di diventare prigionieri di guerra, tuttavia subiscono un attacco delle SS e i tre giovani dell'Armata Rossa devono difendersi, con loro inizia a sparare contro i nazisti il sottufficiale tedesco Willy Lommer, interpretato da Dieter Mann, il quale dimostra di aver compiuto una maturazione politica e una conseguente e consapevole scelta di campo, questi, prima di incamminarsi con gli altri soldati tedeschi verso la prigionia, lascia a Hecker una lettera per la sua famiglia e il giovane si impegna a consegnarla.
La narrazione, più ancora diaristica che documentaristica, tende soprattutto a incoraggiare il pubblico a riflettere e a trarre i conseguenti insegnamenti, il tutto in una semplicità profondamente emotiva, capace di ricercare e ricreare sempre un contesto di autenticità, un caleidoscopico mosaico in cui i frammenti delle vite dei protagonisti e di coloro che incontrano, con cui collaborano o con cui si scontrano, si ricompongono dentro gli avvenimenti storici, i quali in ultima analisi sono anche il risultato di un innumerevole insieme di storie personali, le quali sono protese a far comprendere la complessità di quei giorni in cui l'incommensurabilità diventa metro di ogni giudizio.
Negli sguardi del protagonista vi è poi tutto lo stupore e lo smarrimento per l'incontro, in un quotidiano cammino di avvicinamento, con i propri connazionali, non i compagni antifascisti dei suoi genitori, quelli che a Mosca gli hanno offerto per oltre un decennio una straordinaria immagine di impegno sociale e civile per una società tedesca immaginata e voluta più giusta, più solidale, più eguale, ma donne e uomini che a volte con tragico e imbarazzante entusiasmo, a volte subendolo passivamente pur non approvandolo, a volte contrastandolo al punto da essere internati, hanno convissuto in patria con il nazismo, un popolo tedesco poliedrico e frammentato, ben lontano dai consolidati canoni stilistici cinematografici della DDR, volti a offrire una dicotomica e un po' didascalica frattura sociale capace di porre irrevocabilmente i nazisti e che li ha sostenuti da una parte, giustamente quella sbagliata della storia, e gli antifascisti, i partigiani e i resistenti dall'altra.
"Avevo diciannove anni" ci insegna molto sul 1945, ma anche moltissimo sul tempo presente, proprio per questo forse qualcuno non apprezza che sia invece giustamente promosso e proiettato.